Intervista

Intervista a Co.Mo.Do. di Michela Zoppi

La necessità di intervistare Co.Mo.Do. nasce da una curiosità personale circa la pratica della cooperativa all’interno della società, e dalla ricerca di una serie di risposte da parte di chi lavora nel settore su quello che è oggi, o può essere in futuro, il ruolo del graphic designer.

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Vorrei prima di tutto porre la domanda base, per partire dal punto zero della realtà Co.Mo.Do. Come è nato Co.Mo.Do Sociale? Racchiusa nel suo nome c’è una frase che ritengo molto forte, soprattutto se legata al concetto di impegno sociale: “Comunicare moltiplica doveri”. Che tipo di doveri sono implicati nella comunicazione? Qual è stato il primo lavoro a cui avete collaborato come collettivo?

Co.Mo.Do. è un collettivo nato nel 2003 a seguito di un percorso di lavoro e formazione avviato nel carcere di massima sicurezza di Spoleto. Facevamo formazione in campo editoriale e grafico ai detenuti per avviarli a un percorso di reinserimento lavorativo, alternativo alla pura detenzione. Ci siamo resi conto come quella che per molti era semplice disciplina, in quel contesto diventava uno strumento di riscatto e reintegrazione. Il nome Co.Mo.Do. nasce da questa presa di coscienza. Da quel momento non ci siamo più dimenticati di quanto sia importante coniugare sempre nel processo progettuale, design del linguaggio visivo e design dei contenuti.

Sicuramente il metodo di lavoro che avete strutturato è abbastanza differente dalla logica dello studio di design, anche perché dal sito risulta che la sede di Co.Mo.Do è dislocata in tre differenti città. Come è stato impostato il work flow e quanto questo è cambiato negli anni?

In realtà le città sono 5. Perugia, Rimini, Rovigo, Milano e Barcellona. Anche Matteo Guidi, che vive da anni nella capitale catalana, è parte del collettivo. Abbiamo scelto questa forma di lavoro in contrasto alla storia molto più classica di Bcpt Associati, l’altra mia società in cui il lavoro è più decisamente legato alla pratica di studio in senso tradizionale. Volevamo nel caso di Co.Mo.Do. che la pluralità dei punti di vista e l’influenza di contesti molto diversi tra loro potesse rimanere un valore da portare all’interno del percorso concettuale e ideativo di ogni progetto. Ogni progetto parte da una fase di discussione libera che viene istruita in rete attraverso piattaforme collaborative. Molto spesso questa fase di lavoro avviene anche a prescindere dall’esistenza di commesse reali, sono i casi in cui nascono le idee più interessanti. Definito il quadro concettuale generale del progetto, questo viene affidato a un responsabile del collettivo e sviluppato attraverso fasi di verifica progressive che vengono condivise all’interno del gruppo, fino alla produzione degli elaborati finali da proporre. Molto importante è il ruolo svolto dalla nostra project manager, Alba Beni, senza la quale in una tipologia di lavoro di questo tipo tutto rischierebbe di saltare per aria. Il mio ruolo è invece quello di direttore artistico e design architect, affinché il tema legato all’omogeneità e riconoscibilità dei linguaggi in chiave visuale sia assicurato.

I collaboratori di Co.Mo.Do sono figure poliedriche che vengono da formazioni diverse tra loro; i designer sono affiancati da figure redazionali e da ricercatori. In questo senso credo che il graphic design, la progettazione più in generale, si apra alla possibilità di avere un nuovo ruolo sociale attivo, e un differente tipo di obiettivi e finalità. In questo senso qual è per voi il ruolo del designer nella società contemporanea?

La risposta è già un po’ nella domanda. Noi siamo convinti che oggi la parola design si debba legare anche a temi come il contenuto, i processi e le relazioni. Ciò che è importante nei progetti che sviluppiamo non è la forma grafica, questa arriva come diretta conseguenza di una consapevolezza che per prima cambia proprio nel committente. Ciò che richiede più tempo è progettare o riprogettare il contesto all’interno del quale il progetto deve applicarsi. Lavoriamo in modo intensivo nel ridefinire i paradigmi culturali che sono propri dei nostri committenti affinché guadagnino loro stessi punti di vista diversi. Raggiunto questo obiettivo il tema visuale e grafico non incontrano più ostacoli e si può davvero sperimentare.

Pierre Bernard, designer francese fondatore di Grapus, nel noto testo “THE SOCIAL ROLE OF GRAPHIC DESIGNER” afferma che “Oggi la produzione di forme di comunicazione visiva consiste essenzialmente nell’advertising.” E ancora: “C’è una differenza però tra advertising e graphic design. L’advertising è oggi sempre più centralizzato, internazionale, generalizzato e, perciò, standardizzato – come le forze economiche che lo producono, e i prodotti stessi con cui ha a che fare. Il graphic design dall’altro lato, continua ad essere creato e strutturato in maniera autonoma e diversificata – in contatto diretto con gli specifici tessuti sociali di differenti società nel mondo.” Questo tipo di ragionamento portano il design ad un livello di importanza notevole all’interno della società stessa. Quanto questo tipo di discorso è possibile secondo voi nella società contemporanea? Potreste commentare questa citazione in riferimento a quella che è la vostra esperienza nel mondo del design e dell’advertising?

È un modo di ragionare che ormai fatichiamo a seguire. Lo consideriamo sorpassato. Continuare a parlare di discipline e ambiti, risponde a una concezione compartimentale del nostro lavoro che per noi almeno non esiste più. Quando il governo giordano ci ha commissionato una campagna per la valorizzazione turistica del nord del paese, abbiamo ridiscusso l’incarico convertendo la richiesta in un progetto di indagine che ci permettesse di far raccontare agli abitanti dell’area la loro percezione della terra da raccontare. Ci avevano chiesto delle brochure e abbiamo progettato una mostra nomade. La parola inglese ‘ti advertise’ significa letteralmente il pubblicizzare qualcosa, ma intende in modo implicito il farlo attraverso l’investimento di grandi somme di denaro. Oggi noi preferiamo parlare di ‘diffusione’ di un messaggio attraverso canali plurimi e contestuali, spesso attivabili spontaneamente lavorando sul concetto di reputazione esistente nel pubblico di utenti e condivisione di valori chiave.

Oggi si parla moltissimo di design speculativo e di “critical design” in cui il progettista spesso è cliente di sè stesso, nel senso che lui stesso si pone delle questioni critiche al quale tenta di rispondere con un approccio progettuale basato sulla comunicazione visiva. Dove e perché si può inserire Co.Mo.Do. in questa nuova serie di “specializzazioni”, direzioni, della disciplina del design?

Noi siamo produttori, insieme a Bcpt Associati di un evento annuale che abbiamo chiamato ‘Polpette’. Si tratta dell’organizzazione di lectures e incontri in cui tentiamo di approfondire il tema riguardante la possibilità che ha il design di produrre cambiamenti reali, sia nel mondo delle imprese private che nel mondo delle istituzioni pubbliche. Quest’anno pubblicheremo un volume che raccoglie tutti i caratteri tipografici ‘titling’ che abbiamo progettato negli anni. Riusciamo in alcuni casi anche a intervenire all’interno di commesse reali, introducendo temi ed eventi progettati e proposti da noi. È accaduto quest’anno con Umbria Libri, il festival di editoria realizzato dalla Regione Umbria e di cui curiamo la comunicazione, per cui abbiamo curato due laboratori dedicati al libro autoprodotto, con Valentina Alga Casali e Cristina Balbiano d’Aramengo, su tipografia espressiva e legatoria. Riassumendo io non credo alla categorizzazione di un design che si possa definire speculativo o critico, penso che queste siano qualità da portare all’interno di ogni progetto che si sia chiamati a sviluppare; penso piuttosto che facendo questo lavoro abbiamo dei doveri e questi riguardino l’assunzione di responsabilità circa le ricadute sulla collettività di quanto facciamo e abbiamo la possibilità di generare. Fuori da questa visione saremmo solo dei decoratori.

Negli anni in cui si formò la realtà Grapus fino forse ai primi anni novanta, il graphic designer era una figura che progettava e collaborava con il cliente anche tramite una sua convinzione politica e ideologica che connotava ed identificava il lavoro stesso. Oggi l’impegno politico, o meglio la politica stessa, è quasi scomparsa, tanto che la guida dello stato, delle nazioni, della realtà mondiale, è in mano all’economia. Il design è stato, ed è tutt’ora, svuotato del suo animo ideologico, della sua forza comunicativa in riferimento alle criticità politico-sociali. In questo senso cosa muove Co.Mo.Do. oggi? Quali scopi, obiettivi, ideologie e finalità sono alla base del vostro lavoro?

Chi ha detto che la politica è finita? Forse è finita la politica dei partiti, quella che abbiamo ereditato dal periodo nero dei totalitarismi e della resistenza. È finita la politica del rosso e del nero (anche se le cronache degli ultimi tempi sembrano contraddire anche questa considerazione), e versa in cattive acque la politica della gestione del potere. Non è finita la responsabilità politica, ovvero collettiva, di ogni atto che abbia ricadute sulle persone. Per noi la carica ideale rimane tutta lì, tesa a favorire qualsiasi azione che possa consentire agli utenti di un progetto di avere un’idea diversa sulle cose, maggiore conoscenza e più coscienza dei propri diritti. È decisamente politica la convinzione che la comunicazione non debba sedurre vendendo il falso, ma debba invece essere tesa a dare maggiore autonomia di scelta alle persone. I primi punti che tocchiamo nelle fasi iniziali di lavoro con ogni committente riguardano la sua responsabilità e il suo obbligo di trasparenza verso i suoi utenti.

Un’ultima domanda che vuole essere forse un po’ provocatoria. Il design può cambiare la realtà sociale in cui opera? In che modo?

La risposta in buona parte sta nel testo Design and Democracy che Gui Bonsiepe tenne a Santiago del Chile nel 2005, nell’evento di accettazione della Laurea Honoris Causa che gli conferì la Facoltà di Tecnologia. “I am using a simple interpretation of the term “democracy” in the sense of participation, so that dominated citizens transform themselves into subjects opening a space for self-determination, and that means ensuring room for a project of one’s own accord. Formulated differently: democracy involves more than the formal right to vote. Similarly, freedom goes farther than the right to chose between a hundred varieties of cellular telephones; or a flight to Orlando to visit the Epcot Center, or to Paris to look at paintings in the Louvre. I favor a substantial, and thus less formal, concept of democracy as the reduction of heteronomy (i.e., domination by external forces)”. Il nostro compito non riguarda mettere in mostra le nostre abilità, ma rendere le persone a cui rivolgiamo il nostro lavoro, abili di mettere in mostra le loro.